La Suprema Corte si è trovata a decidere sull’incidenza, nell’addebito di una separazione tra i coniugi, di un comportamento autoritario del marito nei confronti della moglie.

Nel caso di specie il carattere autoritario del coniuge aveva, nel corso degli anni di matrimonio, limitato la libertà decisionale della moglie ed a qualsiasi contestazione di quest’ultima egli si era dimostrato intollerante, avversando ogni diversa opinione con attacchi d’ira e violenza, mantenendo tale comportamento nonostante la terapia di coppia alla quale le parti si erano sottoposte.

Ad ulteriore conferma di ciò veniva quanto accaduto successivamente alla comunicazione della moglie di volersi separare, infatti potevano essere considerati indici dell’abituale prevaricazione avvenuta durante il matrimonio anche le smodate reazioni avute dal marito alla volontà della coniuge di separarsi, reazioni che non possono costituire di per sé fonte di intollerabilità della prosecuzione della convivenza, né motivo di addebito in sé, ma sono certamente indice di quella deviazione caratteriale che, in costanza di matrimonio, ha reso in effetti intollerabile la convivenza stessa.

La figura del marito padre-padrone, quindi, rappresenta una chiara violazione dei diritti/doveri dei coniugi sanciti dall’art. 143 del Codice Civile, che pone gli stessi sull’identico piano e prevede l’obbligo, non solo di fedeltà e di assistenza morale e materiale, ma anche di collaborazione nell’interesse della famiglia.

E proprio il principio della collaborazione impone di evitare prevaricazioni dell’uno nei confronti dell’altra.

Conseguentemente appare corretto l’addebito che la Cassazione ha confermato.

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