Il caso: un commercialista accedeva, senza alcuna autorizzazione, alla email di un avvocato, collega di studio, contro il quale era in corso un contenzioso penale, estraendo numerosa documentazione epistolare inviata o ricevuta dall’avvocato medesimo; una di dette email, che conteneva apprezzamenti negativi ed offensivi su alcuni legali e magistrati, veniva trasmessa al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ed alla Procura della Repubblica per i provvedimenti del caso dal detto commercialista, ritenendo quest’ultimo sussistere illeciti disciplinari e penali dato il contenuto della email stessa.

Il commercialista veniva, quindi, denunciato per i fatti suesposti sulla base della prospettata sussistenza dei reati di cui all’art. 615 ter e 616 del codice penale. La prima norma (accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico) punisce “ chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo”, la seconda norma (violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza) al primo comma punisce “ chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta”, mentre al secondo comma punisce colui che “senza giusta causa rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza” se dal fatto deriva danno a qualcuno.

L’imputato giustificava il proprio comportamento basandosi sull’esimente prevista dall’art.51 del codice penale, che prevede la non punibilità nella eventualità in cui l’azione ipoteticamente costituente reato sia compiuta nell’esercizio di un diritto, diritto che, nel caso, sarebbe stato quello alla difesa in giudizio; infatti il commercialista ha sostenuto che l’accesso alla casella email della parte offesa era stato necessario al fine di reperie prove per difendersi in relazione al contenzioso penale esistente, per altre ragioni, tra il commercialista stesso e l’avvocato.

Il giudizio si concludeva, in Cassazione, con una piena condanna, infatti i giudici di legittimità, come peraltro quelli dei precedenti gradi, non hanno riconosciuto sussistente l’esimente del diritto alla difesa in giudizio, dato che tale diritto non può consentire la intromissione nella sfera giuridica delle altre parti processuali, fino ad azioni, quali sostanziali intercettazioni, riservate a poteri autoritativi di organismi pubblici. Detta intromissione non sarebbe stata lecita neppure se fosse stata svolta, e così non era avendola compiuta la parte e non il difensore, nell’ambito di indagini difensive.

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